In questa inchiesta che ha devastato Anzio gli investigatori scrivono di “ritenere possibile la sussistenza di accordi illeciti anche con esponenti della criminalità locale, in passato indagati per reati di criminalità organizzata”. C’è da rabbrividire a leggere queste tre righe. Tre righe che raccontano come, ad Anzio, ormai i contatti tra la politica e la criminalità organizzata ci sono, eccome. In proposito non possiamo non ricordare l’inchiesta Malasuerte della Procura della Repubblica di Velletri e della polizia che ha portato alla condanna di otto persone per reati diversi. Un’inchiesta che ha spaziato dalla droga alle armi e che ha sconfinato nella gestione dei parcheggi estivi lunga sosta al porto toccando anche l’amministrazione comunale. Lo hanno accertato gli investigatori e confermato i giudici nelle motivazioni delle condanne in primo grado della sentenza Malasuerte. Un’inchiesta che, per la prima volta, ha aperto uno spaccato sul salto di qualità della criminalità organizzata e sul ruolo della politica sul territorio di Anzio. E’ nelle motivazioni della sentenza del Tribunale di Velletri che ha portato alle condanne.

L’imprenditrice taglieggiata e la “mediazione” della politica

Una storia che vede un’imprenditrice nel settore dei servizi, nello specifico della gestione del parcheggio estivo lunga sosta al porto di Anzio costretta a dover pagare, dal 2013 al 2105, per non avere problemi, un pizzo di 4 mila euro al mese a due pregiudicati che, per questo reato, sono stati condannati in primo grado a sei anni di reclusione per estorsione. Un “patto di non concorrenza” con i due pregiudicati che in realtà, come hanno accertato prima gli investigatori e poi il Collegio giudicante, nascondeva una vera e propria estorsione. Una storia che inizia nel 2013 quando, davanti ai problemi di coordinamento tra le potenziali cooperative impegnate nella gestione dei parcheggi al porto di Anzio, il vicesindaco Giorgio Zucchini – nel processo ascoltato come teste – e l’imprenditore Ernesto Parziale in rappresentanza della cooperativa “I Neroniani” – della quale all’epoca risultava titolare la moglie Valentina Salsedo, attuale consigliere comunale – incontrano la titolare della società di lunga sosta e gli propongono di costituire un consorzio di cooperative per la gestione dei parcheggi; ma la donna respinge la proposta. “Nonostante l’iniziale rifiuto di costituire un consorzio – scrivono i giudici – la parte offesa si vedeva costretta ad accettare di versare una quota dei propri utili (il 30%) per evitare, di fatto, che con la cooperativa “I Neroniani” si potessero verificare al porto quelle paventate problematiche di ordine pubblico”.

Il “patto di non concorrenza”

Questo passaggio è cruciale perché si concretizza all’indomani dell’incontro con il vicesindaco e il rappresentante della cooperativa. Insomma, già nel 2013 l’imprenditrice, accetta la sottoscrizione del “patto di non concorrenza” per non avere problemi: “si deve osservare – scrive il collegio nel dispositivo della sentenza del processo Malasuerte – come, oltre alla pressione esercitata dal coinvolgimento nella vicenda di esponenti delle istituzioni comunali, la parte offesa riferiva che all’interno della cooperativa i Neroniani erano coinvolti in qualche modo e senza che fosse chiaro a quale titolo, anche un pregiudicato e odierno imputato”. “Intimidita e minacciata” come rilevano i giudici nella sentenza, per non avere problemi (nel luglio del 2015 l’altro pregiudicato appena entrato nel business facile dei parcheggi minaccia di incendiare il luogo di lavoro dell’imprenditrice, si legge nelle sentenza), versa in contanti attraverso un intermediario al pregiudicato che sta nella cooperativa “I Neroniani” per le estati 2013 e 2014 quello che era un vero e proprio pizzo. E si arriva all’estate 2015 quando nel “patto di non concorrenza” si inserisce un altro pregiudicato – finito nell’inchiesta Malasuerte – che ha fiutato l’affare e i soldi facili e chiede la sua parte: ossia duemila euro al mese una parte del quale la consegnerà alla moglie di un pregiudicato campano, in quel momento in carcere, legato al clan dei Casalesi. Nell’estate 2015 l’imprenditrice verserà un pizzo complessivo di 14 mila euro. Era pizzo, anche se è stato edulcorato con la definizione “patto di non concorrenza”. Come si legge nella sentenza, in quell’estate l’altro pregiudicato appena entrato nel business facile dei parcheggi arriva e minaccia l’imprenditrice di incendiarle il luogo di lavoro. Nell’estate del 2016 con gli arresti nell’ambito dell’operazione Malasuerte, l’imprenditrice non sottoscriverà più alcun “patto di concorrenza” e lavorerà nella gestione dell’area a lunga sosta al porto di Anzio senza pagare il pizzo.